Marina Abramovic tra autolesionismo e coscienza di sé: la Performance Art estrema e spericolata



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Lei stessa si definisce Granmother of Perfomance Art, molti di noi la conoscono per i video di alcune sue performance sul web, ma pochi conoscono la storia di una donna coraggiosa ed estrema che ha fatto del suo corpo la tela perfetta sulla quale rigurgitare la sua arte spinosa.
Nata a Belgrado il 30 novembre del 1946, Marina Abramovic ha un’infanzia non semplice, e, sin dai suoi primi passi artistici, viene ostacolata dai genitori che non capiscono la violenza delle sue rappresentazioni;  quando, appena conclusa l’Accademia delle Belle Arti di Belgrado nel 1972, comincia ad ideare e mettere in scena le proprie esecuzioni, nessuno pensa che quella sia arte, e ad ostacolarla, oltre che i suoi genitori, sono anche i professori dell’Accademia che vogliono internarla in un manicomio, tanto ostica al mondo era, per quel tempo, l’arte dell’artista serba.

La Performance Art nasce agli inizi degli anni 60 del Novecento, quando si sente il bisogno di disintossicarsi dalle logiche del mercato artistico, e dell’arte vista esclusivamente come merce e come prodotto da vendere, e si cerca di focalizzare l’attenzione sul gesto, quindi sull’ estemporaneità del presente, che così facendo non può essere mercificato. La corrente di pensiero occidentale odierna fa risalire la Performance Art agli inizi del secolo XX, e alle decomposizioni dadaiste, tuttavia è pensiero comune identificare la corrente artistica delle Performance con quella degli Happening, termine che conia Allan Kaprow nel 1959 ad indicare quegli eventi artistici effimeri e mutevoli nei quali viene interrotto il rapporto di mutuo distacco fra opere e visitatore. Nella Performance Art, così come negli Happening, è l’azione, senza alcun limite di tempo o di spazio, a costituire l’opera. Negli anni, numerosi generi e correnti minori sono state annoverate nella più generale definizione di Performance Art: dalla Body Art di Acconci e Nitsch, dall’estremo Azionismo Viennese al Gruppo Fluxus, dalla Land Art all’arte Relazionale di Tiravanija e Cattelan.
Così come nella Performance Art è l’azione a costituire l’opera in sé, nella Body Art l’artista pone al centro della scena il suo corpo e quello dello spettatore, innescando una relazione fra di essi. Senza il pubblico l’opera non può avvenire, e la sua presenza è, sia attivamente che passivamente, fondamentale per la sua manifestazione.

Ed è questo il caso delle prime esecuzioni di Marina Abramovic, performance di body art estreme, autolesioniste e crude, attraverso le quali l’artista cerca di provare a superare i propri limiti corporali e mentali, arrivando anni dopo alla conclusione che mentre il corpo ha limiti, la mente no, perché con il pensiero si è sempre al di là del tempo e dello spazio.
È il 1973 e Marina si propone al pubblico di Napoli con l’esecuzione Rhythm 0, nella quale, rimanendo inerme e totalmente passiva per 6 ore, l’artista si pone totalmente in balia del pubblico che ha a disposizione 72 oggetti posti dalla stessa artista, per provocarle dolore o piacere. Tra gli oggetti vi è anche una pistola con un colpo inserito, oltre che coltelli e lamette, anni dopo la Abramovic confesserà di aver avuto paura di morire. Le vengono strappati i vestiti, e le vengono inferte ferite profonde dalle quali alcuni le succhiano il sangue, la performance si conclude quando il gruppo di difensori che cerca di salvarla da coloro che vorrebbero ancora procurarle violenza le pone la pistola carica in mano.
Di esecuzioni autolesioniste l’Abramovic ne farà altre, sempre alla ricerca dei suoi limiti, come quando nel 1974 (Rhythm 5) dopo essersi tagliata e lanciato unghie e capelli in una stella a cinque punte infuocata, ci entra lei in un atto finale di purificazione, e sviene per la mancanza di ossigeno. O come quando in Lips of Thomas del 1975 prima mangia un kg di miele con un cucchiaio d’argento, poi beve un litro di vino rosso rompendo con la mano il bicchiere, e infine, sempre seguendo simbolici rituali di purificazione, con una lametta si provoca un’incisione di una stella a cinque punte sul ventre che farà sanguinare con un getto d’aria calda, mentre il resto del suo corpo congelerà poiché è distesa su di una serie di blocchi di ghiaccio. Il pubblico non può rimanere inerme a queste esecuzioni e quindi reagisce. La reazione stessa diviene l’opera. In Art must be beautiful del 1975 l’artista si pettina i capelli con una spazzola ed un pettine di metallo, ripetendo che l’arte dev’essere bella fino a che non si sfigura e si spezza i capelli.

Non solo autolesionismo, nel 1977, l’Abramovic, insieme al suo compagno dell’epoca, l’artista Ulay, mette in scena alla Galleria d’arte di Bologna la performance Imponderabilia, nella quale ella è alla ricerca del concetto di identità, e lo fa sperimentando il disagio e l’imbarazzo di perfetti sconosciuti costretti a dover passare in uno spazio molto piccolo creato fra i corpi nudi dei due artisti che sono posti l’uno di fronte all’altro, ai lati di una strettoia. Il passaggio stretto costringe inoltre a girarsi su di un lato, e a scegliere quindi da quale parte voltarsi nell’accesso, dal lato maschile o da quello femminile, e questo crea riflessione.
(Video della performance: https://www.youtube.com/watch?v=QgeF7tOks4s )

Nel 1997 vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia, con l’opera Balkan Baroque, nella quale seduta in cima ad una montagna di ossa di animali, li pulisce e gratta via il sangue e lo sporco per 4 giorni, mentre alle sue spalle ci sono immagini proiettate dei suoi genitori. L’odore è insopportabile ma l’effetto è quello che vuole l’artista. L’opera è in realtà una forte denuncia contro i crimini della guerra che in quel momento dilaniano il suo paese. 
(Video della performance: https://www.youtube.com/watch?v=gbswpr7ibBA )

Un’artista complessa e potente, ma anche una donna coraggiosa con una grande carica emotiva. Celebre la sua storia d’amore con un artista suo contemporaneo, anch’egli performer, Ulay, con il quale si è detta addio ripercorrendo la Muraglia Cinese da punti opposti, ma l’uno verso l’altra, dopo 12 anni di simbiosi. Celebre anche il video di una delle sue ultime performance al MoMa di New York, nel 2010, The Artist is Present, nella quale è seduta, e muta, dinnanzi a sconosciuti, che a turno, possono sedersi di fronte a lei tutto il tempo che vogliono e guardarla negli occhi, facendone così un personale specchio emotivo in grado di accogliere il silenzio di tutti, in un’epoca dove parliamo troppo con le parole senza dire nulla di importante.
(Video della performance: https://www.youtube.com/watch?v=OS0Tg0IjCp4 )

Dopo aver esposto anche al PAC di Milano nel 2012 con Abramovic Method, l’Abramovic ha concluso uno dei suoi ultimi progetti di performance nel 2014, Counting the rice, al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, che consiste nel contare, e far contare al pubblico, chicchi di riso separati da lenticchie sparsi su di un tavolo, per sperimentare i limiti della concentrazione umana e dell’impegno. La ripetizione della gestualità così all’infinito trasforma l’atto in sé in qualcosa di più profondo, abolendo tempo e spazio, e ponendoci in contatto con la parte più remota di noi stessi.


Rhythm 0, 1973

Rhytm 0, 1973
Lips of Thomas 1975

Balkan Baroque, 1997

Artist is Present, MoMa New York, 2010




Isabella Mazzola