Le provocazioni di Maurizio Cattelan: l’Arte Relazionale

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Siamo negli anni del Postmoderno e del Post-human di Jeff Koons e Damien Hirst, negli anni in cui grazie a biotecnologie, chirurgia estetica e nuove tecnologie, muta la cognizione che l’essere umano ha di se stesso e del suo ruolo in quanto tale nella società, ma si assiste anche alla sempre più costante perdita di una identità personale nei corpi mutati dall’artificialità della globalizzazione estetica in canoni stereotipati.
Ed è in questo scenario, agli inizi degli anni novanta che viene coniato il termine Arte Relazionale. Lo conia il critico francese Nicolas Bourriaud, fondatore e direttore dal 1992 al 2000 della rivista Documents sur l’art, facendo confluire al suo interno tutte quelle forme di rappresentazioni artistiche che si manifestano pienamente solo attraverso la loro interattività con il pubblico, attraverso la socialità che favorisce le relazioni fra individui, proprio a voler creare uno spazio che sia al di là di quella standardizzazione e omologazione dei comportamenti che l’aumento di luoghi sociali precostituiti aveva portato con sé. L’Arte Relazionale, dunque, nasce dalla ricerca della ricostruzione di un luogo protetto dall’omologazione, dalla socialità forzata e non veritiera che si stava prospettando all’inizio degli anni novanta, e si propone come spazio di relazioni umane anche al riparo da una imminente e sempre più invadente meccanizzazione e automazione del sistema relazionale.

L’opera d’arte si pone quindi come interstizio sociale, e, a differenza di un’opera d’arte tradizionale non è fruibile da tutti allo stesso momento, ma solo da un pubblico chiamato appositamente per l’occasione e in un determinato lasso di tempo; è il caso, ad esempio, dell’opera dell’artista di origini tailandesi Rirkrit Tiravanija, che, alla Biennale di Venezia del 1993 invitò il pubblico a prepararsi zuppe cinesi liofilizzate e a cibarsene insieme dinnanzi a pentoloni d’acqua da lui preparati; in passato esempi illustri possiamo rivederli nelle cene di Spoerri, o negli Happening del Gruppo Fluxus negli anni sessanta e settanta.

Un artista di certo inserito a pieno titolo nel panorama italiano, ma soprattutto internazionale, dell’arte relazionale è l’italiano Maurizio Cattelan, nato a Padova nel 1960, inizia a lavorare a Milano per poi trasferirsi definitivamente a New York. Il suo debutto fu, tuttavia, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1991, dove presenta un lunghissimo tavolo da calcetto con schierati da una parte 11 calciatori senegalesi, e dall’altra 11 riserve della squadra di calcio del Cesena, rigorosamente bianchi (A.C, Forniture Sud, Torino, 1991), opera grazie alla quale Cattelan fa in modo che la società tutta, e il pubblico presente all’opera, si interroghi sul problema fondamentale del razzismo in Italia. 
L’arte di Cattelan è sempre stata un’arte provocatoria di insubordinazione, volta a scardinare quei subdoli giochi di potere che determinano poi i rapporti di forza meschini fra vincitori e vinti, o semplicemente a porre l’accento su questioni annose come il razzismo e altre di alta rilevanza morale. Le sue opere irriverenti mirano a capovolgere un certo sistema di valori fino ad un certo tempo riconosciuto come assoluto, ma che Cattelan ha intenzione di rovesciare; poiché, come dice lo stesso Tiravanija: ”è importante non ciò che si vede, ma ciò che avviene tra le persone e nelle persone”.
E per Cattelan è necessario stupire lo spettatore, come quando nel 1997 espose una tassidermia animale, ossia un piccolo scoiattolo impagliato all’interno di un ambiente studiato appositamente per rappresentare il tema del suicidio: un tavolo in miniatura sul quale è accasciato l’animale, con delle sedie, un’arma sul pavimento, e sullo sfondo un lavandino; e infatti “Bidibidobidiboo” è un’opera che lascia lo spettatore confuso da reazioni contrastanti poiché gioca con l’effetto generato da immagini forti e realtà illusorie.
O Come quando nel 2001, per la Biennale di Venezia, monta un cartello gigante, replica di quello creato per Hollywood, sulla collina di Bellolampo, collina che sovrasta la più grande discarica di immondizia di Palermo.

Ma una delle sue opere più affascinanti, e allo stesso tempo irreverenti è senza dubbio la grande scultura marmorea posta in Piazza degli Affari, a Milano, dinnanzi al palazzo novecentesco Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa Italiana: L.O.V.E. L’opera, vera opera in situ, composta da un alto basamento e da una mano di un uomo con tutte le dita mozzate tranne un solo dito, quello medio, è alta 11 metri ed è stata realizzata nel 2010 dall’artista, completamente in marmo di Carrara, proprio per quel luogo e in quella posizione.
Il significato dell’opera resta tuttavia controverso e molteplice, inizialmente si è pensato ad una mano che, intenta nel saluto fascista, perda le altre dita per rimanere monca e mandare un messaggio abbastanza chiaro di lotta ai poteri forti – il palazzo oltre che sede della Borsa è anche un palazzo di piena architettura fascista, e i materiali utilizzati per la scultura sono gli stessi dell’edificio di Mezzanotte -  ma, in un secondo momento si nota come la mano intenta nel gesto irriverente sia in realtà rivolta verso di noi, e cioè che sia la Borsa stessa a rivolgere il gesto poco carino verso i cittadini ignari. Dov’è la verità? E poi l’acronimo cosa significa? Il critico che ha presentato l’opera, Francesco Bonami, ci dice che si tratti di Love, Odio, Vendetta, Eternità, ma possiamo esserne sicuri? La produzione insolente e provocatoria di Cattelan ci ha abituati a questo senso di smarrimento dinnanzi a molte delle sue opere, e questo non ci deve far penare. Resta, piuttosto, il desiderio e la curiosità di andare ad ammirare l’opera da vicino, aspettando che questa susciti in noi le consuete sensazioni contrastanti; e solo così, l'arte di Cattelan sarà compiuta.


Isabella Mazzola



L.O.V.E. Maurizio Cattelan, Piazza degli Affari, Milano, 2010