Peter Beard: l'ultimo dandy della fotografia

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Quella di Peter Beard, fotografo statunitense che ha raccontato in modo unico il continente africano e la bellezza femminile attraverso i suoi patchwork, è una vita fantastica nel vero senso della parola. Un qualcosa che appartiene alla fervida immaginazione di una brava penna perchè racchiude in sè una buona dose di avventure intorno al mondo, amori da playboy, viaggi, jet set e arte ma soprattutto fascino, quello selvaggio, che appartiene a chi vive la vita che tutti, almeno una volta, abbiamo sognato di vivere dal nostro divano.

Divano sul quale Beard passerà decisamente poco tempo; nasce nel 1938 a New York da cui volerà lontano molto presto, ad appena diciassette anni per l’esattezza, con un biglietto aereo per il Kenya. E se a quell’età i suoi coetanei subivano il fascino del mondo femminile, Beard stava per conoscere già il suo grande amore: l’Africa. Infatti quel viaggio sarà solo il primo di una lunga serie in quella direzione.



Con in tasca una laurea in storia dell’arte a Yale, Beard torna in Africa, stavolta per lavorare a pieno contatto con la natura locale allo Tsavo National Park, che nel '65 ispirerà il tema del suo primo e più famoso libro “The End of the Game” che racconta e documenta l'orrore dell’estinzione degli elefanti di quella zona. Mosso da un profondo amore e senso etico, infatti, Beard può essere definito come un attivista passionale e convinto, costantemente impegnato a denunciare lo stato di pericolo in cui versa la natura con i propri ecosistemi, drammaticamente minacciati dall'intervento umano, da bracconieri senza scrupoli che mettono a repentaglio intere specie animali e sopratutto da un occidente sempre più cieco e indifferente alle sorti dell'ambiente. Il suo impegno esemplare sarà riconosciuto anche dall'OBE (ordine dell'impero britannico) che nel 1993 istituirà a Londra la fondazione "Save the elephants" a favore della sopravvivenza degli ultimi imperatori della savana.

Non ci vorrà molto altro tempo prima che Beard si decida ad acquistare un ranch nella sua terra adottiva, l’ Hog Ranch, e che diventi il “vicino di casa” della scrittrice danese Karen Blixen, autrice del romanzo “La mia Africa” con cui instaurerà un’amicizia lunga una vita. Tra l'altro, nel film tratto dal romanzo si nota una grandissima somiglianza tra Robert Redford e Peter Beard! Sarà un caso?

Facciamo però un passo indietro, quando ancora nella Grande Mela, Peter Beard, grazie alla Voigtlander regalatagli dalla madre all’età di otto anni, inizia a tenere un diario in cui raccoglie e assembla foto, ritagli di giornale, immagini, schizzi, piccoli oggetti e insetti. Questi colorati e caotici collage qualche anno dopo andranno a riempire le più patinate riviste di moda.
Infondo la sua stessa carriera può essere definita come un meraviglioso patchwork che lega in modo fluido fotografia, arte, moda e natura.

Beard trova un linguaggio unico per raccontare e immortalare perfino un pericoloso coccodrillo. Chi non conosce lo scatto del 1970 per il magazine Interview che ritrae Naomi Sims nella bocca dell’anfibio? Immortala poi le più belle top model dell’epoca e lo fa con la stessa nonchalance con cui si destreggia tra le sue battaglie ambientali e i party più esclusivi nell’abbagliante New York degli anni ‘60 frequentati dal jet set internazionale. Il fotografo diventerà ben presto amico di Truman Capote, Andy Wharol, Jakie Kenndy, Francis Bacon e Salvador Dalì.




Beard trova il perfetto connubio tra moda e natura anche grazie alla bellezza di top iconiche come Janice Dickinson, fotografata con un leopardo in Kenya nell’84, Veruschka e Iman, di cui può dirsi fieramente pigmalione quando nel ‘75 la scopre a Nairobi e la introduce ad una delle più grandi agenzie di New York, la Whilelmina Models. Le porta nella sua Africa tradendo una visione lungimirante e innovativa della fotografia di moda, scatterà per Vogue, Harper's Bazaar ed Elle e più recentemente, nel 2009, sarà dietro l’obbiettivo della sua macchina per il Calendario Pirelli in Botswana dove lavorerà con top model del calibro di Mariacarla Boscono, Daria Werbowy, Isabeli Fontana, Lara Stone e Malgosia Bela, immortalate nell’oasi acquatica del delta dell'Okavango e nella distesa arida del deserto del Kalahari, due ambienti ancora intatti, scelti per rappresentare la natura come un’entità fragile, ponendo l’accento sui cambiamenti climatici, la sovrappopolazione e l'impoverimento delle risorse naturali.



L’espressione creativa di Beard non si ferma alla moda ma sente forte anche il richiamo del vivace mondo dell’arte che ribolle di idee, visioni e novità. Dopo diverse significative collaborazioni, tra cui quella del 1970 con Andy Wharol che dà vita a “Introduction to the things of life”, nel 1975 organizza la sua prima mostra alla Blum Helman Gallery di New York, a cui seguirà un’altra mostra ancora più autorevole, nel 1977 presso l'International Center of Photography di New York, in cui saranno esposte fotografie, patchwork, cimeli di viaggio e ricordi personali di quella terra tanto amata.

L’arte per Beard era intesa e vissuta a tutto tondo, compresa la musica; con un cotè di amicizie decisamente rock, nel 1972 viene scelto dal magazine Rolling Stone come fotografo ufficiale del tour dei Rolling Stones “Exile on Main Street” che lo porterà in giro per Canada e USA per due mesi in compagnia della band e di Truman Capote, incaricato di seguire il tour come giornalista. Con quest'ultimo collabora anche nel ‘72 ad un pezzo per il magazine Life sulla prigione di stato di San Quentin in cui viene intervistato Bobby Beausoleil, detenuto nonchè adepto della famiglia Manson, immortalato nello scatto “San Quentin Summer” a torso nudo con una chitarra accanto a Truman Capote in uno dei bracci del carcere.

Dal ‘72 al ‘75 Beard vivrà tra il Kenya e l’America, in particolare a Montauk dove nel ‘73 acquista il Thunderbolt Ranch, un cottage a picco sulla scogliera, che diventa un vero e proprio polo d’attrazione di ritrovo per amici, artisti, scrittori, musicisti e celebrities. È proprio lì che Beard filmerà la storia di Lee Radziwill e Edith Bouvier Beale (la zia di Jakie O’) che crescono insieme il piccolo Edie nella tenuta “ Grey Gardens “, da cui nascerà il documentario “That Summer” premiato al Telluride Film Festival nel 2017, la cui versione cinematografica è il film “Grey Gardens” del 2009.

La vita sentimentale di Beard sarà scandita da tre matrimoni, quello del ’62 con la It girl Minnie Cushing dalla durata molto breve, quello con la top model Cheryl Tiegs dall’82 all’86 e infine quello nell’86 con Nejma Khanum da cui avrà una figlia, Zara a cui sarà dedicato il libro illustrato per bambini “Zara’s Tales: from Hog Ranch”.
Oggi le opere di Beard sono vendute all’asta e ambite dai collezionisti di tutto il mondo: nel 2007 un suo collage stampato in gelatina d’argento raffigurante dei cuccioli di ghepardo rimasti orfani in Kenya è stato venduto per 672.500 dollari.

È dallo scorso 30 marzo che si erano perse le tracce del fotografo, ormai ottantaduenne e ammalato di demenza senile. Si era allontanato dalla sua proprietà di Montauk quando è stato ritrovato senza vita dopo lunghissime ricerche solo il 19 aprile, proprio nella natura, dove ha sempre amato vivere. La sua famiglia lo saluta con alcune bellissime parole: “è importante che Peter sia ricordato per il modo in cui ha sempre vissuto: un artista straordinario, un viaggiatore insaziabile, un eroe del movimento per la conservazione dell'ambiente, un amante della vita, dell'Africa, dell'avventura, della sua famiglia e dei suoi amici”.

È proprio così che resterà nella nostra memoria, come quel bellissimo uomo con il viso da attore hollywoodiano e il fascino di un selvaggio, “metà Tarzan, metà Byron” come lo definì Bob Colacello in Holy Terror, il suo libro su Andy Warhol.
Viene un po’ di mal d’Africa salutando così l’ultimo dandy della fotografia, ma probabilmente sarà solo scappato lontano ancora una volta, forse proprio nella sua terra dove puoi scappare per sempre e fare quello che vuoi senza che nessuno ti guardi alle spalle, come affermò durante un’intervista.

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